Il padre di Giulia Cecchettin ospite dell’istutito Copernico Pascoli: “Dove manca la libertà, non c’è amore”

Il padre di Giulia Cecchettin ospite dell’istutito Copernico Pascoli: “Dove manca la libertà, non c’è amore”.

Aula magna dell’Istituto Copernico Pasoli. 410 studenti in presenza, altre 77 classi collegate a distanza: quasi duemila ragazzi uniti da uno stesso battito, quello del rispetto. Un silenzio assoluto, che non era vuoto, ma denso. Denso di ascolto, di emozione, di domande. In quel silenzio, è entrato con passo lieve, ma fermo Gino Cecchettin. E con lui, senza retorica, è entrata anche la sua Giulia.

Ad aprire l’incontro, la dirigente Sara Agostini, con parole misurate e forti. La vicesindaca Avv. Barbara Bissoli ha subito toccato il cuore del problema: “Il primo ostacolo alla parità di genere è la violenza sulle donne“. Una frase semplice e necessaria.

Il professor Quaglia ha dato il senso profondo dell’incontro: “Questa non è una giornata-evento, ma una giornata di riflessione. Il libro Cara Giulia è un ponte tra un dolore personale e la costruzione di un nuovo immaginario collettivo”. Giulia, ha detto, “è tutti noi”.

Poi, Gino Cecchettin. Non un personaggio pubblico, ma un padre. Solo un padre. Un uomo che ha scelto di fare della propria sofferenza una strada per altri, una lezione per tutti. “Non preparo mai niente – ha detto – parlo col cuore”. Lo si è sentito, fin dal primo istante. “Quando vedo ragazzi davanti, vedo Giulia. È lei che mi dà la forza”.

Ha parlato di ascolto, di dialogo, di radici che si fortificano attraversando tempeste. Ha chiesto ai ragazzi – con la dolcezza che solo chi ha sofferto davvero sa trovare – di non avere paura di raccontarsi. “Non temete di sentirvi giudicati. Qualche piccola tempesta dobbiamo attraversarla, per rendere le radici più forti”.

C’è stato spazio anche per l’autocritica generazionale: “Noi adulti non siamo stati in grado di gestire i cambiamenti della tecnologia e questo ha ampliato il solco con voi”. Ma Cecchettin non si è fermato alla denuncia. Ha offerto strumenti. Uno su tutti: la relazione, quella vera. “Il dialogo è una soluzione. Parlarsi faccia a faccia. Fermare la violenza subito”.

Poi ha toccato il nodo più delicato: quello della violenza invisibile. “La violenza di genere è nella relazione, all’inizio non sembra nemmeno violenza. Ma dove manca la libertà, non c’è amore. La gelosia? La forma più cristallina di stupidità”.

Non ha lanciato proclami. Ha affidato ai ragazzi frammenti di verità vissute. Come il ricordo di un collega vessato dai bulli: “Mi ha insegnato che le parole di chi non stimiamo non dovrebbero toccarci. Siamo noi a dare potere a chi ci ferisce”.

E infine, l’appello che più resta: “Portate via con voi un po’ di Giulia. Perché Giulia era un esempio virtuoso di essere umano. Sono qui perché non voglio più sentire parlare di una ragazza uccisa da chi diceva di amarla. Basta. Basta accettare un no, farsi forza e andare avanti”.

In quella sala gremita, nessuno ha osato distrarsi. Nessuno ha distolto lo sguardo. Perché lì, davanti a loro, non c’era solo un padre. C’era una testimonianza viva di cosa può diventare il dolore, se lo si affida al coraggio.

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